Psicoterapia e psicofarmaci. Breve storia di un matrimonio difficile.

 

Il rapporto tra psicoterapia e psichiatria è più complicato di quanto forse non appaia al lettore non specializzato: ad oggi l’integrazione dei due modelli di intervento, strada senz’altro percorribile nella presa in carico della sofferenza psichica, avviene in una minoranza di casi, e spesso la scelta della tipologia di trattamento spetta all’utente, almeno per quanto riguarda l’ambito specialistico privato.  Scopo di questo articolo sarà allora quello di analizzare brevemente la natura delle differenze trattamentali in esame, nel tentativo di chiarire talune caratteristiche del panorama della salute mentale, e consentire una scelta informata a coloro i quali sono interessati a capire qualcosa in più sull’argomento.

 

Alcuni cenni storici

 

E’ senz’altro corretto dire che la psicoterapia nasca da una costola della medicina: Nell’ultimo decennio del 1800 Sigmund Freud, neurologo, mette a punto un nuovo e rivoluzionario metodo di indagine dei fenomeni mentali, aprendo la strada alla “cura attraverso la parola” (Foschi & Innamorati, 2020). Si trattava di un periodo in cui gli psicofarmaci ancora non esistevano ed i metodi contenitivi della psichiatria erano in larga misura brutali e coercitivi: oltre alle tristemente note procedure di lobotomia e craniotomia si può fare menzione di elettroshock, terapie febbrili indotte artificialmente, asportazioni chirurgiche etc. (Ackerknecht, 1959)

La psicofarmacologia invece nasce e si diffonde a partire dagli anni ‘50. Per un eclatante caso di serendipità ad esempio si scopre che l’imipramina, una molecola testata per il trattamento della tubercolosi, non faceva assolutamente nulla alla tubercolosi ma in compenso garantiva un potente effetto antidepressivo (Shorter, 1997). Da allora si sono sviluppati numerosi farmaci efficaci e sicuri, e ad oggi il medico psichiatra dispone di quattro classi psicofarmacologiche che costituiscono la sua cassetta degli attrezzi (Faravelli, 2010): 1) gli anti-psicotici, che riducono e contengono la sintomatologia psicotica quale deliri e allucinazioni, 2) gli antidepressivi, classe di farmaci in realtà ad oggi utilizzata nel trattamento di molte condizioni psichiatriche e mediche, 3) gli ansiolitici, che garantiscono un effetto calmante ad azione rapida, 4) gli stabilizzatori dell’umore, i quali controllano la debilitante oscillazione umorale tipica ad esempio del disturbo bipolare.

 

Farmaci e psicoterapia: cosa ci dice la letteratura scientifica?

 

Sul versante della ricerca il rapporto tra psicoterapia e psicofarmaci è stato indagato da diverse pubblicazioni specialistiche, e ad oggi la letteratura appare abbastanza concorde nel sostenere l’utilità di tale integrazione. I vantaggi potenziali descritti spaziano dall’aumento della compliance al trattamento, alla possibilità di intraprendere psicoterapie nei quadri psicopatologici più severi (Faravelli, 2010). Una recente meta-analisi  (Huhn et al., 2014)  ha passato in rassegna 61 meta-analisi e 852 studi sull’efficacia di psicoterapia e psicofarmaci prendendo in esame anche quelle ricerche che ne valutavano l’integrazione. Nella maggioranza dei casi la terapia combinata dimostrava una superiorità statisticamente significativa rispetto al singolo trattamento, farmacologico o psicoterapico. 

 

Rapporti di diffidenza 

 

Se non è tutto oro quel che luccica, viene da chiedersi allora perchè nel panorama attuale l’integrazione non costituisca la regola, il gold standard del trattamento della sofferenza mentale. Io credo che i motivi vadano rintracciati in un duplice rapporto di diffidenza: 

 

  1. La diffidenza degli psicologi nei confronti della psichiatria e viceversa. 
  2. La diffidenza dell’utenza a fare uso di farmaci. 

 

Accennerò solo brevemente alcune considerazioni riguardanti il primo problema, in quanto rimanda ad un complesso dibattito in filosofia della scienza, sul quale si è scritto molto e che non è riassumibile in poche righe. 

Storicamente si è posta la distinzione, all’interno delle discipline scientifiche, fra scienze dello spirito (es. psicologia, filosofia, antropologia etc.) e scienze naturali (fisica, chimica, biologia etc.) (Dilthey, 1883). Le due famiglie differivano per oggetto di indagine e per metodologia. Per le prime si sceglieva di utilizzare un approccio maggiormente legato all’osservazione dei casi singoli e alla speculazione teorica, per le seconde i più canonici metodi scientifici sperimentali. Questa distinzione storica riflette una differenza di letteratura in psicologia (almeno in riferimento alle psicoterapie) e in medicina; la seconda molto più legata a trial clinici di efficacia, studi randomizzati e verità generalizzabili e replicabili. Due differenti punti di vista quindi: per molti psicologi la medicina proponeva semplificazioni inaccettabili allo scopo di garantire una verificabilità, per molti medici la psicologia difettava del rigore metodologico delle scienze naturali, e si macchiava quindi di “fumosità”. 

Questa frattura ad oggi non risulta pienamente sanata. 

Per quanto riguarda la seconda questione, ovvero la diffidenza dell’utenza a fare uso di farmaci, è anche qui possibile rintracciare motivazioni di carattere storico. Oltre ai metodi “indelicati” della psichiatria dell‘800 e del ‘900, va detto che ci è voluto tempo per sviluppare classi di farmaci che garantissero l’alto profilo di sicurezza e scarsa invasività di cui è possibile disporre oggi. Nell’immaginario collettivo chi fa uso di psicofarmaci è spesso un soggetto catatonico e inabilitato, e tali erano infatti i possibili effetti collaterali ad esempio dei barbiturici, una categoria di farmaci ad oggi non più utilizzata. 

Un altro aspetto in relazione alla diffidenza rispetto al farmaco riguarda la paura e la preoccupazione che inevitabilmente accompagna chi deve farne uso: assumere una sostanza in grado di alterare gli equilibri del sistema nervoso centrale e dell’organismo spaventa, ed il possibile antidoto si ritrova in una corretta informazione scientifica e nelle attenzioni e nella professionalità del medico psichiatra.   

 

Considerazioni conclusive

 

L’integrazione tra farmaci e psicoterapia è senz’altro una strada percorribile ed in molti casi ottimale nel trattamento della sofferenza mentale. Vi sono ancora sforzi da compiere da parte dei professionisti nel promuovere ove necessario un dialogo che consenta di offrire agli assistiti proposte sempre più congrue ed efficaci. Va comunque sottolineato che tale integrazione non è auspicabile nella totalità degli interventi, in quanto i farmaci implicano pur  sempre effetti collaterali di entità non trascurabile, ed è pertanto necessario valutare le singole casistiche, nel rispetto della complessità di quel mondo interno che ogni persona porta con sé.

 

Bibliografia.

 

Ackerknecht, E. H. (1959). A short history of psychiatry. Hafner pub.

 

Dilthey, W. (1883). Introduzione alle scienze dello spirito. Laterza. (Trad. it. 2007).

 

Faravelli, C. (2010). Psicofarmacologia per psicologi. Il Mulino.

 

Foschi, R., & Innamorati, M. (2020). Storia critica della psicoterapia. Raffaello Cortina.

 

Huhn, M., Tardy, M., Spineli, L. M., Kissling, W., Foerstl, H., Pitschel-Walz, G., … & Leucht, S. (2014). Efficacy of pharmacotherapy and psychotherapy for adult psychiatric disorders: a systematic overview of meta-analyses. JAMA psychiatry, 71(6), 706-715.

 

Pievani, T. (2021). Serendipità. L’inatteso nella scienza. Raffaello Cortina.

 

Rossi, R. (2020). Rileggendo Freud: 24 lezioni di psicoanalisi. Alpes.

 

Shorter, E. (1997). A history of psychiatry: From the era of the asylum to the age of Prozac. Wiley.